Piombi

 

   Luigi Vollaro torna in questo spazio dopo sei anni: diverso e insieme uguale, come sempre negli artisti veri, nei poeti. Diverso prima di tutto nelle materie – là terracotte,      quì piombo e cera (in qualche caso legno) -, ma anche in una qual perentorietà di immaginazione, che si traduce in una inedita decisione di ingombro spaziale, mentre le opere più remote vivevano entro un’aura più liricamente intimista, come sospesa tra evocazione e memoria. Uguale nella capacità di oggettivazione di un’ispirazione nel contempo privata e ancestrale, immediata e carica di spessore, a suo modo quotidiana e magica. Uguale nella capacità di oggettivazione di un’ispirazione nel contempo privata e ancestrale, immediata e carica di spessore, a suo modo quotidianae magica. Ed anche nel saper tra frutto dalla qualità dei materiali e conseguentementedelle tecniche, dalle loro intrinseche possibilità espressive, da utilizzaresenza esserne dominati. “Stupido amore della materia”, come ha scritto il grande Melotti: “L’arte non nasce plasmata o forgiata o compressa sotto vuoto; come Minerva, nasce dal cervello: Molte opere d’arte conclamate si rivelano nate da un’idea artigianale, tutta prevedibile. Un muro invalicabile, il murodella poesia, preclude la cittadella dell’arte. Lì dentro le idee passeggiano nude”. Ma nude con un corpo, che la poesia rende significante, come appunto in Vollaro.

   E se la ricettività della terra, la possibilità di trasfondervi direttamente attraverso la pressione delle dita tutto un mondo di suggestioni fantastiche senza attenuarne la carica emozionale permetteva di dar concretezza ad un “immaginario psicologico, onirico, visionario, evocativo per simboli e tracce”, come sottolineava Crispolti accompagnando in catalogo l’artista in quella sua precedente presenza milanese, ora la pesantezza del piombo, sensibile anche solo allo sguardo, nonostante l’intrinseca sua malleabilità, consente una forza di immagine che le dimensioni medesime potenziano, provando come sia anche oggi possibile adottare quel registro monumentale che della grande scultura di ogni tempo è sempre stato carattere denotativo, prima di corrompersi e perdersi nella retorica del monumentalismo.

   Siffatta matura frequentazione di una plastica non “da cavalletto”, che ambisca a riappropriarsi di antichi attributi s’era per la verità già affacciata nella personale in questa galleria (e prima nell’Istitut Français di Napoli) del 1991, come, nel testo citato, ebbe a rilevare Crispolti che, confrontando esiti quali gli Alberi della vita e soprattutto La montagna dei desideri (gli uni svettanti per due metri e mezzo, la seconda veramente imponente, in larghezza e profondità, oltre che in altezza) con risultati più rarefatti ed aerei (gli Aquiloni, le Nuvole, le Isole, i Paesaggi), scriveva appunto di  “una messa in causa della sicurezza volumetrica ponderale tradizionale della scultura”, da Vollaro risolta “in aleatorietà di presenze di simulacri”. Come , in termini altri, continua ad avvenire anche oggi, grazie allo spessore significante-interno, non descritto, non esplicitamente dichiarato di forme cariche di valori memoriali, personali e archetipali. L’ingombro spaziale di cui si diceva all’inizio, certo deciso, forte, qualificante lo spazio esterno, nulla ha infatti a che fare con l’inerzia delle strutture primarie, con la loro comunicazione elementare, tautologicamente affidata alle masse, alla loro presenza fisica.

C’è anzi, come in un palinsesto, in queste nuove sculture, una pluralità di significazioni sovrapposte, affidate all’insieme dell’opera, alla sua definizione strutturale, che dà il titolo al lavoro (Artiglio, ad esempio, o il Grande cero, e inoltre alle superfici, ai particolari: segni, solchi, abrasioni sulla cera che sommano appunto senso a senso, in un interferire cifrato, che trasferisce l’immagine su di un registro che la flagranza dell’impatto ambientale pare contradire, e invece rende più ricca, più articolata, ed anche più arcana un’oggettualità liberata così da ogni rischio di gravosità immobile, solo ridondante e inespressiva.

   Non è quindi la vibrazione della materia che interessa Vollaro, non almeno una vibrazione unicamente finalizzata ad effetti luministici, di allegerimento formale. In quelle tracce, in quelle ferite della materia è fermata la rimembranza di eventi e realtà stratificate nel tempo, così come la scrittura che innervava le terracotte rivelava “i movimenti affioranti dal sottosuolo”, come efficacemente ha osservato Cinzia Zungolo, che ha aggiunto di ritrovare “nelle manifestazioni in piombo” – delle quali ha scritti tra i primi, ancora nel 1992 – “anche il repertorio di forme maschili e femminili che ha sempre caratterizzato l’inventario delle terrecotte: se mai si è allargato il margine di manovra degli strati, la libertà con cui una forma si lega a quella contigua o ne tronca il contorno scagliandosi con un tratto più tagliente e sintetico”.

   Parte delle opere qui esposte sono puntate aggressive. Così i già ricoradati Artiglio e Il grande cero; così l’efficacissimo Ex voto, installazione di 34 elementi, ove l’iterazione degli aculei metallici provoca sul riguardante effetti di ossessiva inquietudine, facendo emergere dal profondo disagi istintivi dalle risonanze ataviche, che le forme violentemente aggettanti dalla parete empateticamente risvegliano; così come anche i due elementi di Angeli ribelli, che tuttavia, per il loro tendere ad un reciproco congiungersi, quasi di una stalattite con una stalagmite, sollecitano piuttosto l’impressione d’una qual energia costruttiva che può anche derivare dal vivere e sentire le due estremità come quelle degli elettrodi dai quali scaturisce l’arco voltaico. Mentre altre sculture, sempre tra quelle qui esposte, sono decisamente più oscure, e come tali attivanti sensazioni meno definibili, eppure, proprio per questo forse, maggiormente seducenti, perché, nella loro indefinitezza, smuovono reazioni altrettanto imprecise, e quindi meno dominabili. Che paionogiustificare la diagnosi, recentissima (nel catalogo del Premio Marche 1995-96), di un’altra commentatrice, Eva Di Stefano, per la quale “la scelta del piombo, il ‘sole lebbroso’ degli alchimisti da tramutare in oro, indica già che Vollaro coniuga nella scultura il magnetismo formale alle suggestioni metaforiche: la gravità della materia saturninasi fa pagina dove filamenti di cera, come bava di lumaca sulla superficie, scrivono voci, memorie, segni fluidi dell’evocazione: strumenti plastici di un antico rituale immaginario, forme che mettono in dubbio la sicurezza volumetrica propria della scultura, totem intimisti che alludono al principio maschile e femminile, ma in primo luogo al desiderio inappagato che l’Io ha del mondo”.

Una riprova, quindi, delle possibilità della “scultura lingua viva”, e proprio, con apparente paradosso, nel dar corpo all’ineffabile, allo sfuggente, all’imprendibile addirittura.

Luciano Caramel

 

 

 

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