ENRICO CRISPOLTI

 

Sui piombi

 

Lungo gli anni Ottanta era stata la terracotta il "mezzo" nel quale si è svolto tutto il lavoro di Vollaro. Lungo i Novanta è stato invece il piombo. Si è trattato d’una mutazione evolutiva che suggerisce la possibilità di verificare la presenza di elementi di continuità e al tempo stesso che di elementi di novità. E i parametri ai quali ricorre al riguardo, analiticamente, credo possano essere soprattutto quattro: relativamente alla materia praticata, relativamente alla configurazione della scultura, relativamente alla specifica virtualità allusiva dell’immagine proposta, e infine relativamente alla qualità del senso delle sue proposizioni.

Il primo parametro riguarda dunque la modalità del rapporto con la materia impiegata. La quale risulta assolutamente di conduzione corsiva nel caso della terracotta, nel senso di caratterizzare in modo determinante – in termini proprio di disponibilità evocativa-narrativa – e interamente le superfici di quelle sue sculture, che si configuravano proprio soprattutto nell’assottigliata campitura di superfici, distendendosi nella svariata casistica di segni, impronte, presenze che vi erano iscritte. Assolutamente di conduzione corsiva dunque come manipolazione della materia nell’intenzione d’una scrittura segnico-plastica.

Modalità del rapporto con la materia impiegata certamente invece sì sempre manipolatoria ma non nel senso d’una determinante trama segnica iscritta sulla superficie, nel caso dei piombi. Ed esattamente direi al contrario in questo caso trattarsi di una manipolazione tettonica. E che insomma nei piombi interessi costituire in evidenza di irrinunciata manipolatoria conformazione proprio le scelte strutturali che vi configurano nuove proposizioni plastiche di Vollaro, anziché circostanze segniche di superficie.

La diversa modalità del rapporto con la materia, se conferma una continuità di primario interesse da parte di Vollaro di fare sempre direttamente con questa i conti, manipolandola tattilmente, rivela infatti anche naturalmente una discontinuità di intenzioni d’una tale manipolazione, nella subentrata funzionalità di questa ad una diversa, o almeno sufficientemente differente, conformazione complessiva dell’evento plastico.

Nei piombi Vollaro rinnova sì il proprio determinante interesse per un rapporto diretto con la materia, ma la sua manipolazione materia non risulta più mirata ad una discorsività segnica corsivamente impressa sulle superfici, come appunto sulla terracotta, quanto invece alla tettonica di una costruttività di eventi plastici di tridimensionale inserimento spaziale.

Ed eccoci dunque al secondo parametro della verifica qui tentata, relativo appunto alla configurazione complessiva della scultura.

La terracotta – lo sottolineavo nella piccola monografia del 1984 – Vollaro la ha usata come campo di scrittura; e risulta infatti foglio, matericamente esile e precario, sul quale incidere i propri allusivi impianti di suggestione narrativa. A volte di terracotta sono anche inserti spaziali a tutto tondo, ma sempre estremamente essenziali: Certo una scultura di prepotente plasticità quale La montagna dei desideri, nel 1988, e tanto più l’ulteriore La montagna dei desideri 2, fra 1988 e’89, cupoliforme, sospingevano la stessa terracotta a diversi e nuovi compiti strutturali, ma altrimenti era la grande espansione delle superfici a tenere banco nel fare plastico vollariano, anche allora:

La dinamica immaginativa che presiede alla costituzione della sua scultura "non fa salti", procedendo invece evolutivamente. E dunque il trapasso dalla corrività manipolatoria delle terrecotte alla tettonica manipolatoria dei piombi, se segnala rispondenza funzionale materia ad una diversa impostazione conformativa dell’evento plastico, non esclude tuttavia che proprio l’ulteriore passo che ne determina la novità, sia stato preannunciato da formulazioni che utilizzavano ancora l’altro materiale; in una sorta dunque di continuità evolutiva strutturale al di là della diversità del trattamento materico. Non v’è dubbio, per esempio, che quella sorta di elmo che corona Il guerriero fiorito del 1993 discenda direttamente appunto dalla conformazione delle "montagne" in terracotta di non molti anni prima E tuttavia quando Vollaro usa il piombo anziché la terracotta nel suo immaginario plastico è avvenuta evolutivamente una mutazione sufficientemente esplicita da portarlo a considerare non più la funzionalità della materia ad una rilevazione corsiva che animasse la superficie del campo plastico, o eventualmente anche d’una sua conformazione tridimensionale, ma la funzionalità ad una disposizione costruttiva che utilizza il piombo manipolandolo non come massa ma quale foglio. E tuttavia non più come tale disponibile a farsi campo di una scrittura, quanto invece ritagliabile, piegabile e saldabile per costruire una entità tridimensionale – e dunque di esplicita dialettica spaziale – dell’evento plastico.

Ritagliandolo e piegando e poi saldando il foglio di piombo Vollaro costruisce dunque sculture e non superfici; esattamente entità volumetriche che hanno tettonicamente – e lo dimostrano – un’origine fattuale elementare, di esito manipolatorio semplice (ritagliare, piegare, saldare), estraneo a ogni possibile originaria vincolazione ponderale della materia plastica. Nei piombi dunque più risolutamente agisce da scultore nello spazio, soprattutto nelle realizzazioni relative alla seconda metà degli anni Novanta.

Dapprima infatti configura presenze quasi enigmaticamente oggettuali (la più esplicita come conformazione certamente La tavola dei desideri del 1992), o più spesso anzi d’una oggettualità enigmatica, che quella proposizione a volte disposta su drappeggiati basamenti in bianco gesso ne fa esattamente qualcosa come misteriose relittualità, memorialmente suggestive, al tempo stesso che evocate suggestioni di casi di scultura, ma scanzonatamente ridotte ad una povertà elementare d’oggetto e di forma (come nei diversi I guerrieri del 1992-94). Proprio per questo tuttavia disponendosi ad una discorsività evocativa che prende chi ne fruisca attraverso non soltanto la conformazione del misterioso oggetto plastico ma le evidenti accidentalità della sua matericamente corsiva tettonica realizzazione.

Poi essenzializza invece la costruzione plastica , vi introduce una dinamica d’incuneata espansione spaziale, si libera di soluzioni curveggianti a favore di situazioni plastiche del tutto nuove, d’estrema acuminata e artigliata tensione. La corrività di manipolazione dei fogli di piombo risulta tutta allora funzionale a un repertorio formale che si è fatto secco, scattante, provocatoriamente quasi aggressivo. E’ la situazione di sculture quali Ex voto, e Artiglio del 1996, o Angeli ribelli del 1996-97. Si videro l’anno scorso nella personale milanese a Spazio Temporaneo, e quest’anno in Nuove Contaminazioni a Udine. Rappresentano l’esito innovativamente più spinto della ricerca di Vollaro.

Ma l’evoluzione della conformazione delle sue proposizioni plastiche, fra motivabili nell’impiego della terracotta e motivabili nell’impiego invece del piombo, in qual misura comporta anche uno scivolamento ulteriore relativamente alla specifica virtualità allusiva dell’immagine proposta? Che è poi il terzo parametro al quale si fa qui riferimento nel confronto fra esiti delle terrecotte ed esiti dei piombi nel lavoro di Vollaro.

Anche in questo caso non v’è dubbio che le novità passino per una continuità che tuttavia non perciò le rende meno avvertibili in quanto tali. Di fatto i piombi sembrano scrollarsi progressivamente di dosso quella disponibilità evocativa narrativa che caratterizzava persino passionalmente le terrecotte. E anzi mi sembra si possa assistere ad una sorta di dinamica evolutiva entro l’esperienza dei piombi, lungo gli anni Novanta.

Nella prima metà di quelli, infatti le cupole degli elmi dei "guerrieri", eredi conformativamente delle "montagne dei desideri", suggeriscono situazioni ove l’accidentalità tanto degli elementi che di volta in volta al culmine vi fioriscono, quante delle trame e delle sagomature tettoniche che li configurano, sviluppa sollecitazioni allusivo-evocative fra proiezione mitico-fabulistica e riduzione ad una gergalità ironica.

Mentre le più scarne e secche strutture spaziali, acuminate e artigliate, della seconda metà dei Novanta mi sembrano spiazzare la gamma delle virtualità allusive da una evocatività scanzonatamente colloquiale ad un pronunciamento di chiara esplicitazione simbolico-formale di tensioni psichiche. Quasi insomma volgendo l’orientamento del riscontro non più nella sfera slontanante d’una immaginazione evocatrice quanto entro una sorta di cogenza immediata, di aggressività che si stia scontando insomma nell’attualità. In una sorta dunque di capovolgimento di prospettive: da quella d’un memorialmente d’un risucchiante imbuto evocativo a quella d’una implicante aggressiva protusione imminente; e da un’ottica rivolta eminentemente ad una dimensione di passato ad un’ottica rivolta eminentemente ad una dimensione di presente. Al presente del riscontro d’un disagio psichico concretamente assillante nella sua ineluttabile contingenza.

Qualcosa risulta dunque mutato relativamente anche alla qualità del senso delle sue proposizioni, che si è dunque fatto da evocativo in certa misura a dichiarativo. O meglio forse – relativamente a quest’ultimo parametro della verifica qui tentata della mutazione evolutiva implicata nel trapasso nel lavoro di Vollaro dall’impiego della terracotta all’impiego del piombo – s’assiste recentemente ad una compressione sempre più accentuata dell’implicazione memoriale (sulla quale la scultura di Vollaro si è venuta appunto configurando nella sua originalità lungo gli anni ottanta, appunto praticando la terracotta) a favore d’una esplicitazione del coinvolgimento d’una condizione essenzialmente psichica attinente maggiormente il presente.

La distanza evocativa si è insomma ammortizzata; il riscontro non passa per il filtro della memoria, ma si esplicita in una concretezza di simbolizzazioni formali (l’acuminatezza, l’artiglio, appunto). Se prima lo slontanante risucchio memoriale, che prendeva corpo nella molteplicità dei segni corsivi, condizionava la configurazione immaginativa delle sculture di Vollaro (in particolare le terrecotte), ora l’immediatezza di presenze psichiche aggressive, che l’essenzialità acuminata delle costruzioni formali esplicita vividamente, sembra motivare il senso di una estrema essenzialità di proposizione plastica, pur operando sempre in corsività di manipolazione del foglio di piombo da ritagliare, piegare e saldare. Ma per farne ora presenze di forme allarmanti nella loro accuminatezza, nelle loro intenzioni artiglianti. Allarmanti nelle forme, allarmanti nel disagio psichico che infine insinuano.

Una scultura quella di Vollaro, che dunque conferma la propria natura interferente immaginativamente la biografia dell’autore, e tuttavia non in intenzione di confessione – neppure nel ravvicinato psichico attuale – quanto sempre in una decantazione simbolica, che nell’originalità delle invenzioni formali che la configurano sospinge le proprie esperienze verso riscontri emotivo-immaginativi di archetipi.

 

 

 

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