A SCAFATI TORNA VOLLARO

 

"L’albero della vita" "Sognando di giocare con gli aquiloni" , "Orme". E, ancora, "Macchina semplice per misurare il tempo", "La montagna dei desideri", "Quando la mia isola giocava con il mare"… Per svelare e, spesso, complicare il senso delle sue sculture Luigi Vollaro ha sempre trovato parole, metafore e simboli che alludono alla forma delle sue opere, che ne raccontano, a volte l’impossibile funzione ("Ex-voto") o che ne sanciscono l’appartenenza alla tradizione, antica e moderna, dell’arte (si pensi a "Omaggio a Lisippo" o a "La città sale di futurista memoria").

Una scelta sorprendente, questa, sottilmente spiazzante, perché in realtà ciò che immediatamente individua la ricerca, ormai più che trentennale, di Vollaro è soprattutto l’attenzione acuta per le materie, le superfici e i pesi della scultura. Un lavoro costante sulle possibilità, le differenti "temperature" dei materiali che la mostra in corso sino all’8 gennaio alla galleria comunale d’arte contemporanea di Scafati documenta con asciutta eloquenza. Seguendo un percorso rigorosamente cronologico che, muovendo dalle esperienze giovanili degli anni Sessanta, giunge sino ai lavori del 98, l’antologica con la quale l’artista quasi cinquantenne torna ad esporre nella sua città natale (la sua prima personale a Scafati era stata proposta nel lontano 1980 dal Centro Sud Arte), scandisce infatti un leggibile itinerario attraverso le "sostanze" della scultura.

Un viaggio che incontra, innanzitutto, la porosità del tufo, la sua dissimulata leggerezza, e che incrocia la luce polverosa e antica del gesso per poi misurarsi (siamo ormai nei primi anni Settanta) con la duttile "povertà" della cartapesta, assunta in un trascorrere di vuoti e fragilità ("Icaro" è il titolo di un’opera di quegli anni non a caso andata distrutta) che destabilizza le tradizionali categorie della scultura. E’ poi il momento, fortunato e seducente, "caldo", della terracotta modellata e incisa, percorsa da immagini e segni, scritture illeggibili. "Una sorta di pelle sensibile animata da un "ductus" sapientemente articolato" scrive Bignardi che, assieme a Caramel e Crispolti, ha firmato il catalogo della mostra (Edizioni I Quaderni d’Arte, Scafati). Le opere in terracotta di Vollaro non vivono però solo della ricchezza, a volte anche decorativa, delle superfici, si confrontano con lo spazio, osano la pienezza inequivocabile del tuttotondo. E’, questa vissuta da Vollaro negli anni Ottanta, una stagione feconda che in parte coincide con l’esperienza dell’Officina di Scafati, nata dall’incontro solidale fra le esperienze di Angelo Casciello, Franco Cipriano, Luigi Pagano, Gerardo Vangone e dello stesso Vollaro . Una fase di felicità (facilità) creativa da cui lo scultore ha saputo allontanarsi per intraprendere nuovi discorsi, nuove ricerche e, inevitabilmente, nuove materie. A spingerlo verso inattese soluzioni è orail metallo, ma un metallo umile, opaco, non nobile e splendente. Sono infatti in piombo; spesso assecondato e corretto dalla morbidezza della cera, le opere che Vollaro ha realizzato negli anni ’90, perseguendo nella luce "fredda" dei grigi e dei bianchi un’ulteriore, mai definitiva, possibilità di scultura.

 

STEFANIA ZULIANI, in "IL MATTINO" Salerno 10 dicembre 1998.

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